Benessere, tecnologia e produttività

La scommessa di un futuro irrealizzabile

È possibile trovare una formula che metta in relazione il benessere delle persone, gli strumenti tecnologici e l’ansia di produttività delle organizzazioni aziendali? Oppure ci troviamo di fronte a esigenze contrapposte e non conciliabili? 
Proviamo a vedere la sfida da una prospettiva di più ampio respiro.

Tecnologia fallace o uomo incapace?

Siamo nell’era dell’automazione e della digitalizzazione, dove le macchine e gli algoritmi potrebbero svolgere gran parte del lavoro ripetitivo e noioso. Se ci aggiungiamo anche l’intelligenza artificiale, abbiamo la possibilità di delegare una buona parte delle decisioni basate sull’analisi di una grande quantità di dati.

Tuttavia, una delle più diffuse lamentele del nostro tempo, è proprio la mancanza di tempo. Tempo da dedicare a noi stessi, alla famiglia, allo sviluppo di nuove idee che potrebbero cambiare il mondo. Com’è possibile? La grande promessa della tecnologia non era liberare l’uomo? Invece, sembra quasi che la tecnologia ci abbia fregato. 

Prima con la rivoluzione industriale, che ha introdotto un’automazione di processo che per molte persone è spesso sfociata in alienazione; ora, con la rivoluzione digitale che, invece di facilitare la nostra vita, ci ha reso schiavi di ogni sorta di device, attrezzi infernali che sono capaci di insinuarsi in ogni interstizio della nostra esistenza.

Immagina di essere negli anni ’70 a fare una passeggiata sulle Alpi, oppure su una sdraio in spiaggia. Chi voleva raggiungerci poteva farlo di persona, oppure doveva aspettare che noi rientrassimo in un posto dotato di telefono, provando a fare un’interurbana senza che cadesse la linea e parlando velocemente, per evitare di spendere un patrimonio.

Oggi le notifiche sono divenute comuni anche nei posti più remoti. E nei pochi micro-secondi successivi all’odioso alert, il nostro cervello parte in competizione con se stesso per capire se si tratta di Whatsapp, e-mail, Telegram, Facebook, Instagram, SMS, Linkedin, Youtube, Messenger, Pinterest, Twitter, Workchat, Quora, Wechat, TikTok, Calendar.
La gara finisce entro pochi secondi, con un segnale imperativo che parte da quell’area della corteccia motoria che controlla la mano, la quale non può esimersi dall’afferrare lo smartphone per verificare cosa sia successo negli ultimi 5 secondi senza la nostra attenzione.

A questo punto, il rischio è di cadere nel baratro. Dopo la corteccia motoria, infatti, l’area visiva e quella della cognizione si attivano in sequenza per decodificare i segnali che il nostro device ci ha appena trasmesso. E qui si scatena l’inferno: scarica di adrenalina per una notizia inaspettata, esplosione di dopamina per un nuovo like alla nostra foto della spiaggia di fronte alla quale siamo sdraiati, una botta di invidia per la foto di una spiaggia più bella postata da un nostro antipatico collega, un pizzico di momentanea rabbia/compassione per la fake news dell’ennesima bambina che ha bisogno di una trasfusione, oppure un momento di assoluta perdizione nel vedere con un sorriso ebete le gesta dell’ennesimo gattino. Con questo, il nostro stato di quiete e di recupero funzionale del nostro cervello va a farsi benedire. 
A ben vedere, non è stata la tecnologia: siamo noi che ci siamo fregati da soli.

Benessere, tecnologia e produttività: la scommessa di un futuro irrealizzabile? 1

Burnout e downshifting: neologismi dell’uomo moderno

Invece di utilizzare questi nuovi strumenti per renderci liberi, abbiamo fatto esattamente il contrario.
Se ieri ero in grado di fare tre cose in una giornata utilizzando 2-3 canali di comunicazione con il resto del mondo (uno dei quali era il bar del quartiere), oggi ne posso fare 30 su una moltitudine di canali diversi, tutti da tenere sotto controllo in tempo reale, perché la regola è “risposta immediata”, altrimenti il concorrente ci frega il cliente o la persona si offende per una errata interpretazione del tempo che abbiamo impiegato a rispondere.

Invece di semplificarci la vita ce la siamo incasinata con un aumento di casi di burnout (esaurimento) e di downshifting (rinuncia a una vita/lavoro troppo competitiva per tornare a occupazioni più semplici e più tempo libero), forse due fenomeni in stretta connessione.

Ma qual è stato il corto circuito? Forse sulla scia di una competizione sfrenata alla ricerca della massima produttività di breve termine, molti di noi hanno scambiato quantità con qualità. La quantità di ore che passiamo a produrre, immersi in un mare di interruzioni da notifiche, disorganizzazione, emergenze, richieste dell’ultimo minuto, ha un impatto devastante sulla produttività, soprattutto sul lungo termine. Non fraintendeteci, però: ci sono momenti in cui bisogna rimboccarsi le maniche e fare più di una nottata per portare a termine un lavoro importante o per garantire una scadenza.

Quello che rileviamo, stando a contatto con tante realtà aziendali molto diverse, è che questo stato di emergenza diventa spesso cronico, e la capacità di sopravvivere ad una elevata sequenza di emergenze diventa il segno distintivo di manager esauriti e tristi, capaci di risolvere i problemi di breve termine, ma incapaci (perché non più allenati) a vedere lontano e guidare i propri collaboratori verso un mondo migliore.

Siamo idealisti? Forse, ma piuttosto direi che siamo pratici. Se avanziamo guardandoci I piedi possiamo evitare le buche, ma prima o poi qualcuno ci investe.

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La soluzione?

Naturalmente, non c’è una soluzione univoca, una bacchetta magica o una pastiglia che possa risolvere tutti i nostri problemi. Ogni situazione è a sé, e va analizzata nel suo contesto specifico. Tuttavia, quello che possiamo dire con certezza è che recuperare una dimensione più umana nelle relazioni professionali e negli ambienti di lavoro è una condizione imprescindibile per aumentare la produttività di lungo termine.

Che significa in pratica? Quello che proviamo a suggerire, per quanto semplice nella sua banalità, sembra invece raro e complesso nelle realtà organizzative. 

Prima di tutto, ricordarsi che ciò che in gergo chiamiamo “risorse umane” o “capitale umano” sono delle persone con aspettative, motivazioni ed emozioni di cui dobbiamo necessariamente tenere conto. Non perché l’azienda deve essere un’istituzione benefica, tutt’altro. Se si riesce a intercettare e aiutare a realizzare l’aspettativa di una persona nel contesto professionale, il suo livello di motivazione salirà alle stelle e di conseguenza il suo livello di fiducia e senso di appartenenza all’azienda, che diventa lo strumento per realizzare i suoi sogni.

Come?

  • dandogli delle mansioni per cui è portato o cui aspira,
  • inserendolo in un progetto importante
  • garantendogli le ferie in un periodo in cui può stare con la famiglia
  • facendolo sentire partecipe delle decisioni aziendali
  • rispettando il suo ruolo
  • gratificandolo per i piccoli successi giornalieri raggiunti.

Ogni storia è a sé e sono infinite le possibilità che possiamo esplorare, perché ognuno di noi è diverso. E se pensi che si possano motivare le persone esclusivamente con uno stipendio elevato possiamo svelarti un segreto: non funziona. O meglio, sul breve termine potrebbe anche funzionare, ma sul lungo… ci sarà sempre qualcuno che sarà in grado di pagare più di noi per le persone di talento.

Facile? Neanche un po’. Gestire le persone è uno dei lavori più difficili del mondo.

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Roberto è il responsabile dei progetti di formazione di People Group. Formatore, appassionato di neuroscienze e Guida Canyon, è sempre alla ricerca di nuovi modi per conoscere e interpretare la realtà che ci circonda. Per comunicare con l’autore: roberto@peoplegroup.it

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